Sono consapevole che la colite ulcerosa farà sempre parte di me, ma non le darò modo di cambiare la mia vita. Quel “sempre” me lo sono perfino tatuato sulla pelle: “always”, a memoria di qualcosa che c'è ma che ho imparato a gestire, con cui ho imparato a convivere. Va, viene, si sveglia, si riaddormenta: il mio fidanzato l'ha soprannominata “il procione”, perché la colite ulcerosa somiglia a un piccolo animale che raschia via qualcosa, ma se lo accarezzi torna a dormire.
E quelle carezze sono il simbolo della forza che serve a convivere con la malattia, soprattutto per combattere durante la fase attiva e sperare di tornare presto in quella di remissione.
Il mio “per sempre” è iniziato poco più di cinque anni fa, nel settembre 2016, con segnali via via più forti di qualcosa che non andava. All'inizio avevo solo un leggero dolore addominale e l’urgenza di andare in bagno, ma niente di più. Poi, passati pochi giorni, lo stesso fastidio ricomparve, e poi tornò ancora, sempre più frequentemente. Sul momento pensai che sarebbe bastato fare un po' di attenzione all’alimentazione, e prendere dei probiotici. Ma nel giro di qualche giorno la situazione cominciò a peggiorare. Andavo sempre più spesso in bagno, le feci erano sempre meno formate e soprattutto avevo visto del sangue. Poco, ma già c'era. Non sapevo bene cosa fare, presi tempo. Ricordo che a dicembre partii per un weekend fuori con un'amica: volevo distrarmi e riposarmi, ma passai quei pochi giorni fuori in preda all'ansia di aver urgente bisogno di un bagno. Mi vergognavo e non volevo parlarne, poi però il momento di guardare in faccia la cosa è arrivato. Sono andata dal mio medico dopo una notte infernale, con continue scariche e sangue. A parte questo, però, non c'era altro che destasse preoccupazione nelle prime analisi che feci, e così fui indirizzata da un gastroenterologo.
Lì, dalla specialista, non sapevo bene come comportarmi: la dottoressa mi fece un sacco di domande, io mi sentivo persa e mi limitai a rispondere, non riuscivo a capire cosa sospettasse. Feci quello che mi prescrisse, colonscopia compresa. Ricordo l'ansia e la paura prima dell'esame – la preparazione fu terribile – e le prime persone che vidi al mio risveglio. Da una parte c'era mia sorella, dall'altra un infermiere con l'esito dell'esame tra le mani, che mi invitava ad andare subito dal mio gastroenterologo. Ci andai: era luglio ormai, e di tutto il lunghissimo discorso che fece la dottoressa io ricordo solo che a un certo punto parlò di “colite ulcerosa”. Avevo 23 anni e non avevo la più pallida idea di quello che mi era capitato, tanto che chiesi come si potesse risolvere quel problema che i medici avevano individuato. “Non esiste una cura, questa malattia ti accompagnerà per sempre”, mi rispose.
Uscita dallo studio ero confusa e non sapevo come spiegare alla mia famiglia, al mio fidanzato quello che avevo appena sentito. Non volevo che pesasse anche su di loro questo carico che mi era piombato addosso “per sempre”, non volevo piangere. Ma era inevitabile che si preoccupassero, anche se non mi hanno fatto mai pesare nulla.
Così, anche per loro ho fatto quel tatuaggio. Perché la mia vita deve andare avanti, anche se ho un procione appollaiato sulla spalla.