Ricordo come se fosse ieri il giorno in cui mi sono resa conto che nel mio corpo qualcosa non andava. Era il 2016, avevo da poco compiuto diciotto anni, e ho cominciato a sentirmi stanca, ad avere spesso la febbre e ad andare in bagno 4/5 volte al giorno, perdendo tanto sangue. La paura era tanta, capivo che c'era qualcosa che andava indagato, così insieme ai medici abbiamo deciso di fare una colonscopia. Diagnosi: rettocolite ulcerosa. Che parola strana, chissà di cosa si trattava, mi dissi. Ma non ero solo spiazzata da quel che non conoscevo: una parte di me ha fatto anche un respiro di sollievo, perché finalmente, dopo mesi, sapevo contro cosa avrei dovuto combattere. Non erano semplici emorroidi a causarmi quelle perdite di sangue, avevo un nome con cui chiamare tutto questo e presto ho anche imparato a conoscerne ogni sfaccettatura, a conviverci. Il fatto che, con l’inizio della terapia, i sintomi diminuivano mi sembrava di buon auspicio. Poi però è arrivato il 2019, l’anno peggiore della mia vita.
Nessun farmaco riusciva più a gestire la mia malattia. Ho cominciato ad andare in bagno fino a diciassette volte al giorno, a soffrire di attacchi di panico quando mi trovavo fuori e non c’era una toilette nelle vicinanze. Mi sono chiusa in me stessa, non volevo più uscire, stare in mezzo alla gente: avevo paura. Mi sentivo così diversa, mi domandavo “perché proprio a me?”. Le mie giornate, a poco più di vent'anni, si erano ridotte a un unico tragitto: casa-ospedale, ospedale-casa. Abbiamo fatto il possibile, ho persino provato una cura sperimentale americana, ma niente ormai sembrava più funzionare. L'unica strada da tentare era l'operazione. “Stai rischiando la vita, dobbiamo assolutamente operarti”, mi disse il medico prendendomi le mani e guardandomi. Non avevo scelta: quell’intervento che mi spaventava così tanto, che temevo, che non avrei mai voluto fare, stava per arrivare. Non volevo mettere il sacchetto, non era giusto. Ricordo quei mesi come i più tristi della mia vita, piangevo ogni giorno, provavo a sorridere ma sentivo un peso sulle mie spalle. Avevo paura, terribilmente paura ma sapevo anche che il mio corpo non ce la faceva più, ne stavo perdendo completamente il controllo.
A gennaio 2020 mi sono operata. In ospedale c’era il mio ragazzo, l’amore della mia vita, c’era tutta la mia famiglia e le mie amiche a sostenermi. Eravamo una squadra bellissima, dovevamo vincere per forza. Quei giorni in ospedale sono stati duri: ricordo la mattina che l’infermiere mi aiutò a capire come togliere e mettere il sacchetto. Ero davanti allo specchio e quell’immagine non la scorderò più: c’era un’altra me che mi stava guardando, scoppiai a piangere. Ma dopo la tempesta arriva sempre l’arcobaleno, no? Così, dopo qualche settimana di convalescenza, è arrivato anche il momento di uscire, con il mio piccolo sacchetto, il mio nuovo amico. Siamo andati a vedere il mare e ho mangiato un panino seduta su una panchina senza avere la paura di dover andare in bagno. E chi se la ricordava più questa sensazione? Ho sorriso, stavo ricominciando a vivere. La mia vita si era fermata, ma il mio nuovo amico mi stava dando una nuova possibilità. Non potevo sprecarla.
Sono passati due anni da allora, ogni tanto con il mio amico sacchetto litigo un po’, mi fa arrabbiare e mi fa piangere, ma in fondo non posso smettere di ringraziarlo, è per lui se sono viva. D’altronde con quale amico non si litiga? La cosa importante è fare sempre pace. Con se stessi, soprattutto. Accettarsi, amarsi.
La mia pancia è piena di cicatrici e altre me ne aspettano perché ho in programma altri due interventi, per provare a vivere senza il sacchetto. Mi spaventa? Sì, tantissimo, ma non esiste coraggio senza paura. Lo so che a volte vi sentite a pezzi, arrabbiati con il mondo, ed è giusto, avete ragione. Non ascoltate chi vi dice che non dovete piangere: piangete, urlate, liberatevi. Lo so che vi sentite soffocare come se non ci fosse una via d’uscita, ma vi giuro che una via d’uscita c’è: in questo tunnel spaventoso e buio, c’è una piccola luce che sta solo aspettando voi.
Correte, non perdete la forza, cercatela. Siete voi i padroni della vostra vita. La malattia vi può mettere alla prova, ma non permettete che prenda il comando. Perciò sì, piangete, arrabbiatevi, ma non dimenticate di combattere. Anche se questo significa avere qualche cicatrice in più. Se avete la fortuna di aprire gli occhi al mattino, potete fare tutto. Siete invincibili. Non dimenticatevi di vivere.