Ho 28 anni e da sei convivo con una malattia cronica infiammatoria intestinale. Posso dire solo questo: perché una diagnosi definitiva non ce l'ho. All'inizio infatti i medici parlavano di retto-colite ulcerosa, ma negli ultimi tempi il mio intestino appare più quello di una paziente con malattia di Crohn. Quello che so oggi con certezza – qualunque nome abbia la mia malattia – è che il mio intestino è diventato tutto il mio mondo. Le mie giornate sono state stravolte: anche la cosa più semplice, come andare a fare una passeggiata o prendere un caffè con le amiche, a volte sembra impossibile.
Tutto dipende dallo stato della mia malattia, che peggiora sensibilmente ogni volta che si presenta un forte stress. D'altronde è anche così che si è presentata la prima volta, in quello che per me era un periodo di forte stress appunto.
Stipsi, muco e sangue, cui sono seguiti i primi esami di routine – compresa la colonscopia ovviamente – e un ricovero, per mettere a riposo un intestino già allora molto provato. La diagnosi di retto-colite è arrivata poco dopo, e con lei le prime terapie. All'inizio, come molti, credevo che tutto sarebbe continuato per il verso giusto. Purtroppo il percorso terapeutico è lungo, a volte tortuoso, e non sempre si riesce ad imbroccare la strada giusta sin dall’inizio. Io ho provato diversi farmaci, ho attraversato momenti buoni e altri meno buoni, ma ancora oggi sono ancora alla ricerca di quelli adatti al mio caso.
Negli ultimi tempi ho ritrovato un po’ di sicurezza con una nuova cura e indossando degli slip assorbenti che possano tamponare un’eventuale emergenza. Queste due cose mi hanno permesso di tornare a vivere quasi come una qualsiasi ragazza della mia età che si gode le giornate in giro con gli amici o con il proprio compagno. D’aiuto mi è anche un percorso psicologico che ho intrapreso con uno specialista per combattere il senso di impotenza assoluta che provo di fronte alla malattia, anche per accettare il fatto che non tornerò forse mai alla normalità. Perché ho capito che, purtroppo, le persone che amiamo possono esserci vicine - alcune sarebbero anche disposte a prendere il nostro posto - ma non possono risolvere il problema. Nessuno può, se non iniziamo da noi stessi e dall’accettazione della malattia.
L’unico timore che ancora non mi abbandona è quello di poter trasmettere la malattia ai miei figli. Nessuno può dirlo con certezza, ma anche solo la possibilità che avvenga mi fa paura. Se mai dovesse succedere, spero solo di dare loro la forza di affrontarla a viso aperto e far valere la voglia di vivere!