Ho 27 anni, e ho vissuto almeno due vite, quella prima e quella dopo la diagnosi di pancolite ulcerosa. Prima di diventare un paziente con una malattia infiammatoria cronica intestinale ero un ragazzo abbastanza soddisfatto. A 24 anni avevo tutto quello che allora mi pareva desiderabile: una splendida ragazza, un lavoro che mi piaceva moltissimo, un sacco di amici e passavo il tempo libero giocando a calcio con la mia squadra. Avevo insomma una vita sociale piena, e la sensazione che passo dopo passo stessi costruendo il mio futuro, inseguendo i miei sogni. Ci credevo, davvero. L'unica ombra allora era sempre stata la mia salute, un po' cagionevole, soprattutto per qualche problema all'intestino. Soffrivo spesso di mal di pancia, e annesse scariche, che a volte mi costringevano a saltare qualche impegno. Ma il mio medico non aveva dato troppo peso alla cosa e aveva parlato di generici virus intestinali. All’epoca sembrava solo questo: che io fossi, come diceva, “debole d’intestino”.
Poi un giorno di maggio tutto è cambiato. Ho cominciato a stare davvero male: febbre alta, continue scariche di sangue, crampi fortissimi alla pancia. Andai in pronto soccorso e mi ricoverarono. Fu lì che per la prima volta una dottoressa parlò di quello che mi stava succedendo: “Hai una malattia infiammatoria cronica intestinale. Da queste malattie non si guarisce, ma ci si convive. Dovrai prendere farmaci per tutta la vita per tenerla sotto controllo”. L'idea di dovermi curare a vita mi pesava, ma tutto sommato al momento la presi quasi bene. Cominciai a seguire delle terapie, venni preso in carico da un ambulatorio specializzato in queste malattie, e mi diagnosticarono una pancolite ulcerosa. Ma pian piano cominciai a capire che non era tutto così gestibile come mi era apparso all'inizio: nella mia malattia e nella mia vita fu necessario introdurre una bella revisione delle priorità.
Le tante terapie provate non riuscivano a tenere a bada la malattia, per cui mi venne consigliato di seguire la strada chirurgica. Lo feci, affidandomi a un esperto del campo, che mi spiegò tutto con dovizia di particolari. Finii sotto i ferri. Fu pesante, doloroso e ci fu anche qualche complicanza, ma andò tutto sommato bene. A due anni dalla diagnosi mi sembrava di aver trovato un po' di pace. Ma mi sbagliavo. Mentre combattevo la malattia, intorno a me non c'era rimasto più nulla: il calcio, il lavoro, gli amici, la mia ragazza. Fu terribile rendersene conto, capire che la malattia non aveva colpito solo il mio fisico, ma anche tutta la mia vita fuori, e la mia vita dentro, senza che me ne accorgessi. Quella diagnosi, i dolori, le terapie, gli interventi, mi avevano cambiato: avevo l'impressione che anche i miei sogni se ne fossero andati via. Ero vivo e fisicamente stavo molto meglio rispetto a qualche tempo prima, ma non sapevo più vivere. Per fortuna, mi sbagliavo di nuovo.
Fu in quel momento infatti che capii quanto fosse bella la vita e quanto valesse la pena viverla. Non potevo più riavere la vita di prima, però potevo costruirne una nuova. Iniziai a ricostruire tutto, mattone dopo mattone, partendo da me stesso, iniziando a conoscermi veramente. E cercando di imparare anche dalla malattia, anche se non sempre è facile, perché tutto lascia un segno e ogni tanto torna a farsi sentire. Tra fermate e ripartenze ho imparato dove trovare il bello. Ho imparato il valore di una giornata di sole, a riconoscere gli amici veri da quelli di passaggio e soprattutto quanto è bello stare bene e quanto è bello sorridere quando si sta bene. Ma la malattia mi anche insegnato che io sono la cosa più importante e che devo avere cura di me stesso, che posso cadere ma che posso rialzarmi, una volta e un'altra volta ancora. La malattia mi ha insegnato quanto è bella la vita e io oggi, a 27 anni, sono vivo come non lo sono mai stato prima. E ho ricominciato a sognare.